Elogio della capacità di arrossire

a cura di: Fabio Gabrielli, Professore di Antropologia filosofica e Preside della Facoltà di Scienze umane della L.U. de S. Lugano

«La perdita della relazione umana (spontanea, reciproca, simbolica) è il fatto fondamentale delle nostre società. È su questa base che si assiste alla reiniezione sistematica di relazione umana – sotto forma di segni – nel circuito sociale e al consumo di questa relazione significata, di questo calore umano significato. L’hostess accompagnatrice, l’assistente sociale, l’ingegnere in relazioni pubbliche, la pin-up pubblicitaria, tutti questi apostoli funzionari hanno per missione secolare la gratificazione, la lubrificazione dei rapporti sociali attraverso il sorriso istituzionale. Dappertutto si vede la pubblicità imitare i modi della comunicazione privata, intima, personale. La pubblicità si sforza di parlare alla casalinga col linguaggio della casalinga di fronte, al dirigente e alla segretaria come il suo principale o il suo collega, a ciascuno di noi come un nostro amico, come il nostro Super-io, o come una voce interiore al modo della confessione. La pubblicità produce così intimità là dove non ce n’è, tra gli uomini, tra questi ultimi e i prodotti, secondo un vero processo di simulazione».

Paesaggi del dolore e della sofferenza

a cura di: Fabio Gabrielli, Professore di Antropologia filosofica e Preside della Facoltà di Scienze umane della L.U. de S. Lugano

Come è noto il dolore e la sofferenza disegnano profili esistenziali diversi. Il dolore presuppone passività, rinvia a cause, determina un male oggettivo ed è moralmente neutro; la sofferenza implica reattività, rinvia al reperimento di un senso/non senso e, quindi, è moralmente rilevante. In altri termini, il dolore è un evento oggettivo, un accadimento tragico, sul quale la coscienza esercita una riflessione (sofferenza) improntata ad una diversificata pluralità di tonalità affettive: dallo sgomento alla rabbia, dalla rassegnazione alla compassione, passando per l’angoscia, il mistero del male, il senso incarnato della precarietà del vivere.

Medicina personalizzata: un esempio nella terapia dei tumori

a cura di: Silvio Garattini, Direttore, IRCCS, Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Milano

Il sogno di una medicina personalizzata non è nuovo. Da sempre si ritiene che ci si debba prendere cura dell’ammalato e non della malattia, riconoscendo che le malattie sono una semplificazione diagnostica di una situazione eterogenea. Con il tempo e con lo sviluppo delle tecnologie e delle conoscenze, si sono fatti molti tentativi. Ad esempio, la possibilità di misurare le concentrazioni dei farmaci nel sangue ha permesso di stabilire che la stessa dose dello stesso farmaco dava luogo in differenti soggetti a concentrazioni ematiche molto differenti. Ciò ha fatto pensare alla possibilità di cambiare la dose a seconda della concentrazione ematica per personalizzare il trattamento. I cambiamenti di dose hanno permesso di ottenere qualche risultato positivo, ma in realtà si è poi osservato che eguali concentrazioni di farmaco non permettevano di ottenere una omogeneità di effetti terapeutici.

30 anni di attività della Fondazione Tonolli

a cura di: Prof. Giuseppe Riggio, presidente Fondazione Tonolli

Livia Tonolli
Milano 1909 – Pallanza 1985

Ricercatrice, presso l’Istituto Italiano di Idrobiologia sulla riva settentrionale del Lago Maggiore, per lo studio delle acque dolci e dei suoi micro-organismi (1938), richiamando grandi ricercatori tra cui il Nobel per la Medicina, James Watson, 1962.

Ha voluto sostenere la ricerca clinica del Gruppo Italiano per lo Studio della Streptochinasi nell’Infarto Miocardico (G.I.S.S.I.) riconoscendone il grande rilievo clinico, organizzative preliminari e contribuendo in modo importante ricerca clinica multicentrica nazionale sulla terapia trombolitica nell’infarto miocardico in fase acuta, che ha portato ad una significativa riduzione della mortalità (vedi Giornale Italiano di Cardiologia Vol. 17/I, Gennaio 1987). Come sappiamo, questa ricerca ha aperto la via ad una nuova concezione clinica della terapia della cardiopatia ischemica, condivisa a livello internazionale.

“…quel bacio è ancora lì…”

così concludeva Cesare Musatti nel descrivere l’avvenimento “sul ponte di Sacile” quando nel 1918 è attraversato da un plotone di giovani che va alla guerra in prima linea e un giovane se ne distacca per pochi secondi  per dare un bacio di addio alla sua ragazza: “quel bacio è ancora lì”. Questo ricordo ci illumina sullo spirito che animava, e anima, Livia Tonolli e la fondazione da Lei creata nel sostenere la ricerca clinica sulla trombolisi nell’infarto del miocardio lucidamente sintetizzata, nell’essenza e nei contesti, da Silvio Garattini.

Il pensiero di Silvio Garattini

Il trentesimo anniversario della Fondazione Tonolli è strettamente associato al ricordo indimenticabile della sua fondatrice, Livia Tonolli, a cui mi hanno legato un lavoro comune nel Comitato di Biologia e Medicina del Consiglio Nazionale delle Ricerche e sentimenti di ammirazione e amicizia. La Fondazione Tonolli ha tenuto fede alla sua missione nonostante la ricerca scientifica sia stata abbandonata nel nostro Paese visto che il Governo la ritiene una spesa anziché un investimento essenziale per il futuro dei suoi cittadini. L’impegno della Fondazione per il settore delle malattie cardiovascolari è stato di grande valore attraverso la realizzazione di corsi innovativi che si sono svolti regolarmente in questi anni. Non posso tuttavia dimenticare il contributo economico che la Fondazione ha dato per la realizzazione dello studio GISSI che ha marcato una svolta importante nella storia della cardiologia.

Si è trattato di una ricerca clinica controllata che ha permesso di stabilire in modo definitivo la possibilità di ridurre la mortalità da infarto miocardico attraverso l’impiego di un farmaco fibrinolitico, la streptochinasi. Oltre al valore terapeutico, che si è poi diffuso in tutto il mondo, lo studio GISSI ha permesso di dirimere un problema di fisiopatologia riguardante l’origine dell’infarto cardiaco: spasmo o occlusione delle coronarie? La risposta è stata chiara nell’indicare che si tratta di una formazione trombotica che occlude le coronarie, scoperta che ha poi determinato l’impiego dei farmaci antipiastrinici a scopo preventivo. La Fondazione Tonolli ha creduto nella ricerca anche in un periodo in cui la ricerca indipendente era quasi inesistente. Lunga vita alla Fondazione Tonolli nel ricordo della sua grande Fondatrice!

Il benessere psicologico in cardiologia

a cura di: Andrea Carta, Ricercatore Università L.U.de.S. Lugano

Introduzione

La Psicocardiologia (o Cardiac Psychology) è un ramo recente della psicologia, che si pone come scopo quello di “studiare i processi psicologici sottostanti la prevenzione e il trattamento delle malattie cardiache” e il sostegno ai pazienti durante la loro convalescenza [Bellg, 1998]; nonché di studiare gli aspetti psicosociali inerenti l’eziologia, la degenza, la riabilitazione e i processi di coping emotivo di tutte le malattie cardiache [Jordan, Bardè; Zeither, 2003].

Nelle ultime tre decadi, lo scopo degli psicologi che si occupano di psicocardiologia si è concentrato sui vissuti dei pazienti, sul loro modo di percepire e reagire a numerose malattie cardio-circolatorie. Ricerche in tal senso sono state effettuate principalmente negli USA e in Germania: le fonti più numerose sono però quelle Americane.
La questione ci porta tra i temi più importanti per la psicologia clinica: l’importanza del legame e dell’influenza reciproca tra psiche e corpo, la relazione tra la qualità della vita, benessere psicologico e il rischio di malattie psicosomatiche. Infatti molti degli studi o delle osservazioni, anche a carattere storico, hanno come denominatore comune questo fattore.

“…quel bacio è ancora lì…”

Le origini della disciplina possono essere rintracciate già nel 2697 A.C. quando un imperatore cinese notò in maniera ingenua che “se le menti delle persone sono chiuse e scompare il sorriso” esse possono ammalarsi [Strauss, 1968, p.38]. Dobbiamo aspettare però il 1628 per avere una descrizione scientifica psicocardiologica: William Harvey scoprì infatti che un “disturbo mentale che provoca panico, gioia eccessiva, speranza immotivata o ansia” estende i suoi effetti sino al cuore. Nel 1897, Sir William Osler, fu il primo a correlare l’arteriosclerosi a comportamenti eccessivi (da notare che descrive la malattia come una giusta punizione alla trasgressione). Sempre Osler (1910) pose la prima pietra per la psicocardiologia moderna, riuscendo a descrivere il paziente arteriosclerotico con tratti comportamentali (acuto, ambizioso e sempre di corsa). Ulteriori ricerche sulla correlazione tra comportamenti psicologici e attivazioni fisiologiche sono stati condotti nel secolo scorso, nell’ambito della psicologia generale, ad opera di Cannon (1932) e di Selye, con la “reazione generale di allarme” (1956).

“Il proliferare della ricerca in psicocardiologia si ebbe però con la famosissima descrizione operata da Friedman e Rosenman (1959) del pattern comportamentale di Tipo A.”

Secondo Allan [Allan e Scheidt, 2012] la cardiologia, come scienza medica, oggi ha fatto passi da giganti, riesce a curare le malattie dal punto di vista anatomico e biologico e a restituire una vita quasi identica ai periodi precedenti alla malattia. Tuttavia i chirurghi e i cardiologi sono sempre meno interessati a seguire giorno per giorno i pazienti e ad aiutarli a ridurre, tramite un corretto stile di vita, il rischio di ripetersi di malattie. E’ proprio in questa mancanza di sostegno che lo psicologo di formazione psicocardiologica può trovare notevoli applicazioni della teoria, in particolar modo in pazienti con insorgenza della malattia prima dei 65 anni, cioè quando la patologia è considerata prematura e fortemente correlata a componenti di qualità della vita e benessere psicologico negativi. Non è solo questo il campo di azione dello psicologo: è stato dimostrato, che l’intervento psicosociale, anche attraverso la psicoterapia, può aumentare la longevità o ritardare la morte. Infatti, l’intervento psicologico prevede la riduzione del panico dovuto alla malattia (spesso accompagnato da depressione, ansia e ostilità) e ciò aumenta la qualità della vita, diminuendo la possibilità di recidiva [Burrell, 2012].
Non solo, l’interesse si dimostra dal fatto che prima del 1930, gli studi erano ridotti ad interventi di qualche grande luminare, dopo il 1930, si tentarono di dare spiegazioni psicoanalitiche e con il 1950 si moltiplicarono gli studi sistematici in questa direzione. L’aumento delle malattie cardiovascolari nelle nazioni industrializzate ha spronato la ricerca in cardiologia: l’evidenza portò a riconoscere una connessione tra fattori prettamente psicologici e patologie cardiache.
Gli studi in psicocardiologia
In molti scritti dai titoli suggestivi come Psychoanalitycal observation in cardiac disorders (Menninger, 1936) e Identification mechanisms in coronary occlusion (Arlow, 1945) i meccanismi di difesa vengono considerati le vere cause di colpi di cuore o infarti. Tramite il noto fenomeno della somatizzazione, alla stregua delle nevrosi o dell’isteria, si può modificare il sostrato fisiologico, alterando i valori di norma e creando quindi patologia. A questa interpretazione e possibile accostarne almeno un’altra. E’ noto che la psicoanalisi ha evidenziato il ruolo fondamentale dei traumi infantili rimossi, che possono influire sulla dinamica psichica e avere ripercussioni sul corpo. Come vedremo più avanti, un’eccessiva ostilità nella vita quotidiana provoca nell’individuo un forte stress (e quindi un aumentato rischio di CHD, Coronary Heart Disease). L’eccessiva risposta emotiva è, infatti, correlata alla mancanza di un amore incondizionato o di una madre sufficientemente buona (per dirlo con Winnicott) nell’infanzia.
Dagli inizi degli anni ’50 sino ai primi anni ’90 la Cardiac Psychology ha conosciuto un notevole sviluppo di studi (quasi 8000 studi) che si sono orientati su tre vie: la prima è lo studio dei fattori di rischio comportamentali, la seconda è la ricerca sui fattori di rischio più prettamente psicologici e la terza è la correlazione tra tratti di personalità e rischio di CHD.
I fattori di rischio comportamentali sono i più facilmente modificabili, anche attraverso percorsi di psicoterapia. Fumo, alcool, obesità, poca attività fisica e dieta sregolata sono fattori di rischio ormai scoperti da tempo. Come affermato dal Ministero della Salute (2009): “Nell’Unione Europea il fumo provoca circa il 90% dei tumori del polmone, l’80% delle broncopneumopatie croniche ostruttive e il 25% delle morti per malattie di cuore” .

Ma in che modo la psicologia può essere d’aiuto in un contesto così prettamente medico?

La risposta è semplice: aiutando, attraverso opportuni trattamenti, il paziente a modificare il comportamento “deviante”. Già a partire dal 1977 (Ornish et al) ci si è interrogati su come modificare le abitudini, attraverso opportuni interventi, in ottica preventiva e riabilitativa. Buoni interventi psico-educazionali, colloqui clinici e psicoterapia possono essere prime valide soluzioni per intervenire su comportamenti e stili di vita errati.
La seconda direzione che seguirono le ricerche fu quella di correlare patologie cardiache a psicopatologie. Ansia, depressione, intenso sforzo lavorativo, stress e isolamento sociale furono tra le cause più studiate e più confermate. Per esempio partendo dal presupposto che eventi come la morte del coniuge, il divorzio, il matrimonio, la perdita del lavoro, le vacanze, i problemi con la legge sono considerate situazioni altamente stressanti, due studi [Holmes e Rahe (1967) e Rahe, Romo, Bennet & Siltanen, (1974)] hanno tentato di collegare eventi stressanti a CHD. Tramite un questionario (Recent Life Change questionnaire) si è valutato -su un campione di 279 sopravvissuti ad un attacco di cuore e su 226 casi di infarto mortale- che punteggi alti al questionario (che dunque indicavano notevoli cambiamenti con conseguente aumento di stress) erano stati riscontrati per tutti i sei mesi prima dell’evento cardiaco, con una fortissima correlazione con l’infarto mortale.
Nel periodo di massima industrializzazione anche la salute sul lavoro venne presa in considerazione negli studi di psicocardiologia. Alcuni studiosi infatti [Karasek, Baker, Marxer, Ahlbom & Theorell, 1981] hanno dimostrato l’esistenza di un netto aumento del rischio di CHD con lavori condotti in maniera “febbrile” nel gruppo dei soggetti con alto job strain (cioè sforzo lavorativo).
L’isolamento sociale, altra piaga sociale specialmente per gli anziani (sempre più abbandonati a sé stessi) venne vagliata come ipotesi di fattore di rischio. I primi studi si sono infatti concentrati sull’altissima mortalità di vedovi/e comparati con la popolazione generale che fungeva da gruppo di controllo [Parkes, 1964; Rees & Lutkins, 1967]. Una ricerca [Ruberman, Weinblatt, Goldberg e Chaudhary, 1984] ha studiato l’estensione della rete sociale in pazienti con MI. I 2315 maschi intervistati, sopravvissuti ad un infarto, mostrarono che sia gli alti livelli di isolamento sociale, sia gli alti livelli di stress, avevano più che quadruplicato il rischio di morte addirittura tre anni dopo l’attacco di cuore.
La malattia del secolo, a detta di molti studiosi, è la depressione. Anche questa psicopatologia è stata collegata dagli studi di Cardiac Psychology al rischio di CHD. Infatti, in una delle prime ricerche condotte, Cassem e Hackett (1973) trovarono prove di depressione nel 76% dei 50 soggetti scelti casualmente da un campione di persone affette da CHD. Una meta-analisi [Booth-Keweley&Friedman, 1987] ha ribadito che la depressione, più di ogni altro fattore psicologico, è collegato alle malattie cardiologiche
Questi studi, al contrario di quelli esposti in precedenza, non hanno dato sempre esiti uguali. Molte indagini, in particolar modo le prime in ordine di pubblicazione, hanno poca validità ambientale e sono difficilmente generalizzabili a culture collettivistiche come quelle orientali.
L’efficacia della psicocardiologia è evidente anche in questo caso. Sempre con opportune terapie si deve cercare dal punto di vista psicoterapeutico di eradicare la patologia. Questo significa anche agire sul piano preventivo: per esempio riducendo l’ansia oppure, come è stato studiato, creare le condizioni, le risorse e le reti sociali per evitare l’isolamento sociale (che molto spesso è alla base di tutti questi fattori di rischio). Secondo Allan e Scheidt (2012) è proprio attraverso l’apporto psicologico che si può definitivamente curare e prevenire le CHD, poiché non esiste nessuna medicina in grado di curare, per esempio, lo sforzo lavorativo troppo intenso o l’isolamento sociale.
La direttrice più affascinate di studi è però quella che fa capo allo studio di Friedman e Rosenmann.
L’analisi sistematica della relazione tra mente e cuore, come già detto, è cominciata alla fine degli anni ’50, quando Meyer Friedman e Ray Rosenman, due cardiologi di San Francisco, scoprirono l’esistenza di una complessa sequenza di comportamenti che denominarono Type A behavior pattern (o TABP). Veniva quindi delineata una minima prova empirica dell’esistenza di un collegamento tra le malattie cardiache e lo stile di vita, che diede un notevole impulso alle ricerche future in psicocardiologia.
Il TABP (o Type A Behavior Pattern) è “ un complesso azione-emozione, che può essere osservato in qualsiasi persona che è aggressivamente coinvolta” in un compito che prevede di conquistare sempre di più in meno tempo, di solito spronati da confronti con prestazioni di altre persone. “[…]Non è una psicosi, né un complesso di paure o fobie, ma una forma di conflitto socialmente accettabile. Le persone che hanno questo pattern sono inclini a mostrare un’ostilità altalenante ma straordinariamente razionalizzata” [Friedman & Rosenman, 1974]
Lo studio condotto da Rosenman [ Rosenman et al., 1975] è il primo esempio di ricerca su larga scala, volta a mostrare la correlazione tra TABP e CHD. Gli sperimentatori suddivisero attraverso un questionario i 3154 soggetti in due categorie: quelli classificati con Type A behavior e quelli con Type B behavior (definito univocamente come assenza di pattern A). I risultati mostrarono, durante un follow-up di 8 anni e mezzo, che i soggetti Type A avevano un’incidenza di CHD due volte superiore (2.24 volte) rispetto ai soggetti classificati con Type B. Più recentemente Williams [Williams et al, 1988] mostrò, in un gruppo di 2289 pazienti, che la correlazione TABP-CHD era marcatamente positiva nei soggetti giovani (sotto i 45 anni di età).
Tuttavia non tutti gli studi condotti sino ad oggi sono riusciti a confermare la relazione tra pattern A e malattie coronariche.
Dunque anche tratti di personalità possono influire negativamente sulla salute e in particolar modo assai negativamente sul cuore. Interessante la spiegazione che Friedman tentò di dare chiamando in causa la psicologia dinamica:
Fig. 2 [Friedman & Ulmer, 1984]
Si può notare come alla base del complesso, i due studiosi pongano l’insicurezza e/o la scarsa autostima. Infatti un’eccessiva enfasi sul compito (proprio come si comporta la persona-tipo descritta da Friedman e Rosenman), pare essere collegata inconsciamente ad una scarsa valutazione di Sé; cioè è come se la persona si dicesse “se porto avanti in maniera impeccabile il mio lavoro, posso dimostrare agli altri e dimostrare a me stesso di valere qualcosa”. Come è stato definito dai due cardiologi, il TABP ha per sintomi principali il senso di pressione temporale (il tempo pare sempre non essere mai a sufficienza per portare a termine il compito) e un’ iper-aggressività con ostilità altalenante (collegata, in ottica psicodinamica, alla mancanza di amore incondizionato durante l’infanzia dovuta alla rigidità emotiva dei genitori).
Gli studi attuali: la personalità di tipo D
Mantenendo sempre vivo l’interesse per i fattori di rischio, la svolta impressa dallo studio di Friedman è stata epocale. Dal 1959 a oggi, molti studi hanno cercato di dimostrare l’esistenza di complessi di personalità, come il TABP, che necessitano di maggiore attenzione psicologica per la riabilitazione e per l’eventuale prevenzione.
Dal 2012 sino ai giorni nostri, la ricerca in psicocardiologia si è concentrata su un nuovo tipo di personalità, che per i suoi “sintomi” è di interesse anche cardiologico, poiché collegata all’insorgere di CHD. Come già detto in precedenza, non tutti gli studi erano riusciti a validare l’esistenza della teoria dei due cardiologi californiani, questo perché si era giunti, sull’onda dell’entusiasmo, a conclusioni troppo affrettate e generalizzate. Il TABP era un complesso troppo “espanso” per poter essere valutato (troppi fattori difficili da operazionalizzare e di conseguenza da misurare) e recenti studi [Hemingway, Marmot; 1999] hanno dimostrato che il Type A ha un effetto eziologico ma non prognostico sull’incidenza di CHD. E’ anche da notare che il Type A riflette, non una teoria, ma un insieme eterogeneo di studi su fattori comportamentali.
Al contrario, la personalità di tipo D, chiamata anche distressed personality, deriva da una teoria della personalità già esistente e da prove empiriche già ampiamente verificate. Il costrutto fu sviluppato in Belgio, durante lo studio ”Personality and coronary heart disease: the type-D Scale-16 (DS16)” [Denollet, 1998] sull’importanza dei tratti di personalità nell’insorgere di patologie cardiologiche.

La tassonomia si basa su due tratti ampi e stabili, cioè quelli dell’affettività negativa e l’inibizione sociale [Denollet, 1998]. In particolar modo l’affettività negativa denota la tendenza a esperire un distress negativo rispetto al tempo (come per il TABP) e alle situazioni; mentre l’inibizione sociale si riferisce alla consuetudine di “tenersi tutto dentro”, cioè di non esprimere questo distress nelle interazioni sociali. Alti punteggi in entrambi i tratti danno origine alla personalità di tipo D. Secondo Denollet (2000) Lespérance, Frasure-Smith (2012) i soggetti affetti da questo complesso tendono ad essere impauriti, ad avere un visione pessimista della vita, a sentirsi spesso depressi, appaiono irritati e meno coinvolti nel provare stati positivi d’umore. Nello stesso tempo, per effetto della desiderabilità sociale, non esprimono i loro stati d’animo per paura di essere giudicati negativamente o non accettati socialmente.

Il Type D può essere considerato un fattore cronico di rischio di ordine psicologico, poiché i pazienti, se non trattati, continuano a mantenere il loro persistente pattern per la gestione delle emozioni. In altre parole la personalità D aggiunge alla ricerca sulle CHD stress-related un plus-valore: il modo in cui i soggetti applicano il coping alle proprie emozioni è determinante tanto quanto l’esperienza diretta di queste emozioni negative [Denollet, Sys, Stroobant, Rombouts, Gillebert, Brutsaert; 2012].

Gli studi si sono concentrati, dal 2012 al 2000, sulla correlazione tra fattori di rischio psicologici (stress, depressione, esaurimento), collegamento con la personalità di tipo D e quindi incidenza di questi fattori sul cuore.
Il primo studio in assoluto venne svolto nel 1995 [Denollet, Sys, Brutsaert] con 105 soggetti. Il 73% delle morti nel campione, occorse alle persone con alti punteggi di Type D. Questo portò ad una serie di riflessioni: la personalità D era collegata ad un rischio di morte 6 volte maggiore rispetto al gruppo di controllo (non-Type D); in più essa era collegata, attraverso fattori di rischio biologici (per esempio è i soggetti TD tollerano male l’esercizio fisico) all’insorgere di infarti del miocardio.

I risultati preliminari furono confermati un anno più tardi in uno studio su 303 pazienti con CHD. Lo studio era una continuazione di quello del 1995 e aggiunse solo maggiore lunghezza del follow-up ed un campione più rappresentativo. La mortalità, come si può vedere dalla fig. 1, era più alta per i pazienti con Type D (27% rispetto al 7%) e l’impatto dei sintomi di fatica e esaurimento sembrarono essere prevalenti in pazienti con questo particolare complesso di personalità
Si è ormai radicata la convinzione che “le CHD, includendo i disordini circolatori, sono le classiche malattie psicosomatiche del nostro secolo” [Jordan, Bardè; Zeither, 2003]. Da questa citazione si evince l’importanza di proseguire con gli studi nel settore della psicologia cardiaca, anche perché, oggi, al contrario dei secoli passati, non possiamo esimerci, per una comprensione completa di un fenomeno, da una visione che comprenda gli aspetti psicologici, biologici e sociali. In particolar modo è chiaro che l’aspetto di prevenzione psicologica giocherà un ruolo fondamentale nella battaglia contro le malattie cardiache.

 

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Ai medici non si può imporre il trattamento più efficace

a cura di: Marco Bobbio – Direttore U.O.C. f.r. Ospedale Santa Croce, Cuneo

Introduzione

Era il 16 dicembre del 1997 quando il pretore della cittadina pugliese di Maglie decise che la cura Di Bella doveva essere rimborsata dal sistema sanitario nazionale, anche se non era ancora stata sperimentata. La comunità scientifica era divisa, i media martellavano con testimonianze di persone “salvate” dal cancro dal professore emiliano. C’era un’enorme pressione anche sugli oncologi. E allora è accaduto un fatto destinato a produrre conseguenze anche negli anni successivi: ha deciso un magistrato. E’ la storia recente del nostro paese e riguarda casi come quello di Stamina, della legge 40 sulla feconazione, o quello di Eluana: di fronte a leggi scritte male, a questioni bioetiche complesse, ma anche alla scaltrezza di promotori di metodi senza base scientifica, i giudici indossano il camice e stabiliscono chi deve essere curato, magari anche come, e chi no. E spesso sullo stesso caso la vedono in modo diverso tra loro.

Gli scontri di carattere bioetico, gli attacchi degli scienziati ai ciarlatani o alla politica, gli appelli accorati delle famiglie finiscono tutti per tirare in ballo un principio sancito dalla Costituzione. “Si tratta di quello della libertà di cura, inteso anche come libertà di non curarsi – spiega Gaetano Azzariti, che insegna diritto costituzionale alla Sapienza – Il punto è capire fino a dove può spingersi questa libertà. Perché dall’altra parte c’è lo Stato che deve tutelare la salute pubblica, e assicurarsi della scientificità delle pratiche mediche”. La libertà di cura è dunque il cardine intorno a cui ruotano quasi tutte le sfide giudiziarie. Serve ai magistrati che si trovano a decidere di eutanasia e interruzione dei trattamenti, come nei casi Welby o Englaro, con le famiglie a battersi per interrompere i trattamenti, sanitari e non, che li tenevano in vita. Ma anche se c’è da decidere su amputazioni rese necessarie dalla cancrena. Una decina di anni fa per due donne ci furono prese di posizione opposte da parte della magistratura: ad una fu amputato l’arto malato anche se non voleva fare l’intervento, l’altra invece ha ottenuto di non operarsi malgrado il consiglio dei medici.
Quella donna morì ma furono rispettate le sue volontà. Poi ci sono giudici che impongono agli ospedali cure non approvate dalla comunità scientifica, come nei casi Stamina e Di Bella, sempre seguendo quel principio della Costituzione. Ma i tribunali impongono risarcimenti per danni da vaccini, anche in casi di malattie che la medicina ufficiale ritiene non connesse alla somministrazione di quei farmaci. La conseguenza, in questi casi, è un calo di fiducia nei confronti della vaccinazione e dunque una riduzione dei bambini coperti contro certe patologie, una situazione denunciata di recente anche dal ministero alla Sanità. Altri Paesi affrontano problemi simili. Proprio in questo periodo in Francia si discute del caso di Vincent Lambert, un uomo in stato vegetativo per il quale parte della famiglia chiede l’interruzione delle cure. Il Consiglio di Stato di Reims ha permesso di staccare le macchine ma la madre dell’uomo ha vinto un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con Stamina in questi mesi si è raggiunto probabilmente il massimo dello scontro tra comunità scientifica e magistratura. Del metodo di Vannoni si è occupato il tribunale amministrativo del Lazio, la procura di Torino e tantissimi giudici civili. Gli Spedali Civili di Brescia in questi mesi hanno ricevuto qualcosa come 500 ricorsi di famiglie che volevano “curare” i loro familiari con il sistema ideato da Vannoni. In circa 150 casi hanno vinto, negli altri la richiesta è stata respinta. Come sia possibile che ci siano decisioni diverse sullo stesso tema resta uno dei punti più difficili da chiarire per la tutta la comunità scientifica e per molta politica. “Il giudice funziona come perito dei periti. Cioè seleziona gli stessi esperti che lo devono aiutare, cosa che è giusta e avviene in tutto il mondo – spiega l’ordinario di Storia della medicina della Sapienza Gilberto Corbellini – Il problema è che mentre in alcuni paesi come gli Usa hanno messo regole rigide sulle caratteristiche di questi esperti, da noi non funziona così. Il giudice può arruolare come psichiatra uno psicanalista, può chiedere aiuto sulle vaccinazioni a un omeopata o a un medico apertamente contrario a questi prodotti. Si scelgono persone giusto perché sono inserite in un albo dove può iscriversi chiunque. Nessuno va a vedere se ci capiscono davvero qualcosa di quel tema. Finisce che i magistrati decidono diversamente su casi identici. La nostra situazione è figlia di una deriva che ha colpito lo Stato di diritto: ogni potere va per conto suo e si fa le regole per cavoli suoi”. Anche Azzariti, riferendosi alle prese di posizione su Stamina, parla di “fascia di grande ambiguità. Su questa pratica si possono fare valutazioni soggettive. Allo stato dell’arte si deve dire che non ha effetto ma il giudice deve ponderare le esigenze, la libertà di cura dell’individuo e il bene pubblico della salute”.
Il caso Di Bella è citato spesso come un precedente di Stamina, anche se l’oncologo faceva una terapia composta da farmaci comunque in commercio, quindi sperimentati. Ad essere bocciata da una commissione ministeriale è stato il modo in cui quei prodotti venivano combinati. Ma più magistrati avevano comunque previsto il rimborso da parte della Asl per chi li acquistava malgrado la mancanza di prove scientifiche. “La Corte Costituzionale ha detto più volte che l’attività medica si giustifica solo in quanto compiuta secondo i presupposti scientifici – dice Amedeo Santosuosso, giudice della Corte d’Appello di Milano e docente a Pavia – In sostanza ha una riserva di scienza e chi opera al di fuori dei presupposti scientifici non ha copertura costituzionale. Parallelamente il giudice è soggetto solo alla legge e quindi nessuno può dirgli cosa deve fare, nemmeno il capo dello Stato. E’ una garanzia enorme ma l’altra faccia è che se si muove fuori dalle norme non è nessuno, non ha potere. Ecco se la mettiamo così, medici e giudici sono in una situazione simile. Ma come il dottore non è indipendente dalle legge, il magistrato non lo è dalla scienza”. Quindi i giudici che ammettono cure non provate sbagliano? “Evidentemente non hanno funzionato alcune cose: la cultura dei singoli giudici, il loro livello di conoscenza delle questioni, e non ha funzionato la dialettica processuale. L’Avvocatura dello Stato, ad esempio, quando si costituisce a giudizio per resistere a ricorsi di pazienti deve proporre perizie che dicano come stanno le cose”.
Beniamino Deidda, già procuratore generale di Firenze, copriva lo stesso incarico a Trieste quando venne investito del caso Eluana. “Dovevamo garantire l’esecuzione del provvedimento della Cassazione per l’interruzione delle cure – spiega – Abbiamo resistito a vari tentativi della politica di rinviare tutto, alle denunce, qualcuno ci ha accusati di omicidio doloso”. Il ruolo dei magistrati che decidono su questioni bioetiche è particolarmente delicato, perché in questo caso entra in gioco anche la politica.

Prevenzione cardiovascolare: una chimera?

a cura di: Luciano Daliento,Professore ordinario presso il Dipatimento di Scienze Cardiologiche,
Toraciche e Vascolari, Università di Padova

Scriveva William Heberdeen nel 1768 ”There is a disorder of the breast, marked with strong and peculiar symptoms, considerable for the kind of danger belonging to it, and not extremely rare, of which I do not recollect any mention among medical authors. The seat of it, and sense of strangling and anxiety with which it is attended, may make it not improperly be called Angina Pectoris”.. Non estremamente raro, tuttavia non comune, se ne descrisse 20 casi nei Transactions of the Royal College nel 1772 e complessivamente ne osservò nella sua pratica clinica 80 casi ,pubblicati postumi ,nel 1802,dal figlio William Heberdeen jr. D’altra parte in conseguenza della forte valenza simbolica che ogni cultura gli ha sempre attribuito il cuore era immune dalle malattie ,come sosteneva Plinio il Vecchio (I sec A.C.) “il cuore è il solo organo interno che la malattia non può toccare e che non interferisce con le sofferenze della vita”, concetto che ritroviamo ancora nel XVIII secolo: Enciclopedia di Diderot: “le malattie cardiache sono estremamente rare “. Cosa è avvenuto se, poco più di due secoli dopo. Jean Pierre Bassand nella lettura inaugurale del Congresso Europeo di Cardiologia di Monaco del 2004 ebbe a dire : “L’intero pianeta è minacciato da una pandemia di malattie cardiovascolari capace di uccidere più di quanto la morte nera abbia fatto nel medioevo”.

Nuove diagnosi senza nuovi trattamenti

The improvement of our investigative and diagnostic capability allows us to recognize early stage or mostly stable diseases in asymptomatic individuals and to treat those patients based on research conducted on more severe and acute conditions. Our main concern is avoiding not to treat a patient because of a missed diagnosis, so that we can avoid regrets and legal troubles. Usually, we do not take into account the opposite risk: overtreatment induced by overdiagnosis. For example, the increased number of diagnoses of pulmonary embolism did not reduce the incidence of death, but increased the number of bleeding from subsequent anticoagulation therapy. Similarly, the widespread detection of troponin increased the number of diagnoses of myocardial infarction solely on the basis of Lab values. In both cases we apply therapeutic strategies that have been proven effective in patients with more advanced and unstable clinical presentations with the risk of doing more harm than benefit. To be reassured by doing more, we risk to do worse. Key words. Overdiagnosis; Overtreatment.


G Ital Cardiol 2014;15(5):289-292

a cura di: Marco Bobbio – Direttore U.O.C. f.r. Ospedale Santa Croce, Cuneo

I progressi tecnologici e strumentali prodotti dall’industria biomedicale sono sorprendenti e di grande utilità per indagare l’organismo con immagini e con dosaggi ematochimici sempre più affidabili e sofisticati. Tutto ciò ha permesso di allargare la nostra capacità esplorativa e diagnostica riconoscendo malattie in stadi sempre più precoci, ma parallelamente non si è modificato il nostro approccio terapeutico, basato su evidenze riferite a patologie più gravi. L’incalzare delle novità impedisce di conoscere a fondo ogni nuovo esame diagnostico (strumentale o di laboratorio), per riformulare la terapia dei pazienti, alla luce di gravità meno rilevanti sul piano prognostico1. Il fenomeno è definito da Domenighetti come la dissociazione diagnostico-terapeutica2. Gli effetti collaterali di una terapia sono costanti, ma se i benefici attesi dal trattamento sono minori (in quanto la patologia è meno grave), non siamo in grado di sapere se i benefici attesi saranno ancora maggiori dei rischi. La nostra principale preoccupazione consiste nel non curare un paziente per un difetto di diagnosi, perché ci esponiamo sempre a rimorsi e talvolta a rivalse giudiziarie. Poco si riflette sul pericolo opposto: il sovratrattamento indotto da sovradiagnosi3. Quali sono le conseguenze della sovradiagnosi per un paziente? I rischi di essere sottoposto a non giustificati trattamenti potenzialmente pericolosi (anticoagulanti, chemioterapici, interventi chirurgici) e a ulteriori test diagnostici (invasivi o con uso di radiazioni ionizzanti) per verificare l’attendibilità di un riscontro occasionale, lo spreco di risorse che potrebbero essere destinate a curare malattie vere e proprie e, non ultimo, l’ansia indotta nel paziente dall’essere inutilmente etichettato come malato4-6. Riflettere sui rischi della sovradiagnosi non può che aiutarci a migliorare la nostra capacità terapeutica. 

La sovradiagnosi di embolia polmonare

Una condizione clinica in passato spesso trascurata, con effetti deleteri per il paziente, è l’embolia polmonare. Oggi, nessun medico di pronto soccorso può permettersi di farsi scappare questa diagnosi e pensa ad escluderla ogni volta che un dolore toracico non è immediatamente spiegabile come una sindrome coronarica acuta. Meglio prescrivere un’angio-tomografia computerizzata (TC) in più che una in meno. Saggio. Ma come interpretiamo e utilizziamo i dati ottenuti dalla TC? Negli Stati Uniti la diagnosi di embolia polmonare è passata dal 1993 al 1998 (data di introduzione della TC) da 58.8 a 62.3 nuovi casi per 100 000 abitanti (+0.5% all’anno) e dal 1998 al 2006 da 62.3 a 112.3 (+7.1% all’anno). Si tratta di una corretta diagnosi che in passato trascuravamo o di un fenomeno clinico in crescita o di un eccesso di diagnosi incongrue? Un dato incoraggiante è che la mortalità dal 1993 al 2006 è diminuita nel tempo, ma sorprende che sia diminuita con maggior rapidità prima dell’introduzione dell’angio-TC (da 13.4% a 12.3%; -1.9% all’anno) rispetto ai 7 anni successivi (da 12.3% a 11.9%; -0.5% all’anno)7. Curioso: molte più diagnosi, riduzione dei vantaggi. Cosa è successo? Con la possibilità di eseguire rapidamente un’indagine radiografica all’arrivo in pronto soccorso e di evidenziare anche piccole embolizzazioni, si è avuta un’esplosione di diagnosi. Paradossalmente, in seguito alla maggior attenzione a evitare fenomeni tromboembolici (mobilizzazione precoce dopo interventi chirurgici, uso di calze elastiche nei pazienti lungodegenti, ampio uso di anticoagulanti durante e dopo un ricovero) avremmo dovuto aspettarci una riduzione del numero di embolie. In effetti, negli anni prima dell’introduzione della TC, la riduzione è stata sensibile, ma si è rallentata negli anni successivi. Si tratta di un’epidemia di embolie polmonari minacciose per la sopravvivenza o un’epidemia di diagnosi occasionali, ininfluenti sulla storia naturale dei pazienti? Il maggior numero di diagnosi riguarda ostruzioni che comprometteranno la respirazione o che non avranno alcuna rilevanza, anche se non diagnosticate e non trattate? È interessante notare che la mortalità ospedaliera per embolia polmonare ha continuato a ridursi in modo costante dal 1993 al 2006, come se le molte diagnosi in più non avessero avuto alcun effetto immediato. In Pennsylvania è stato anche osservato che i pazienti ricoverati per embolia polmonare hanno una minore gravità della malattia rispetto al passato8 e in una recente metanalisi viene confermato che molti emboli identificati sono a livello subsegmentale e non saranno causa di eventi avversi, anche se non trattati9. L’embolia polmonare diventa la quintessenza della diagnosi in medicina10 non perché rappresenta uno dei nostri grandi successi, ma perché raccoglie in sé tutta la complessità della medicina nell’era della medicina basata sull’evidenza: aumentano le diagnosi, aumentano i trattamenti, non si riducono gli eventi. Che male c’è – direbbe qualcuno – a essere più accurati anche su diagnosi ininfluenti? Analizzando i dati per gli stessi due intervalli di tempo, si scopre che le emorragie intraospedaliere, avvenute in pazienti ricoverati con diagnosi di embolia polmonare, sono aumentate del 2.1% all’anno nel primo periodo e del 7.0% all’anno nel secondo e le emorragie intracraniche sono aumentate del 4.8% e del 7.9%. Questi dati si riferiscono solo all’immediata osservazione intraospedaliera: quale sia l’incidenza di emorragie a lungo termine non è noto, ma è certamente maggiore. Un prezzo che si può pagare per prevenire le drammatiche complicazioni provocate dall’embolia, ma non certo per prevenire diagnosi occasionali che non avranno conseguenze cliniche: un aumento del rischio senza un aumento del beneficio. Ai risultati di questa analisi, basata su dati amministrativi, si contrappone una recente ricerca prospettica11 condotta su due casistiche comprendenti oltre 3700 pazienti consecutivi con sospetto di embolia polmonare. Dividendo i pazienti in tre gruppi (embolia prossimale, distale, senza embolia) è stato osservato che il rischio di recidiva e la mortalità nei primi due gruppi non erano significativamente differenti, ma erano aumentatati rispetto ai pazienti ai quali era stata esclusa la diagnosi. Inoltre il rischio di emorragia non era differente nei due gruppi di pazienti con embolia polmonare prossimale o distale, trattati con anticoagulanti. I dati della letteratura sollevano un dubbio, senza risolverlo completamente, sui vantaggi di individuare i pazienti con embolia polmonare periferica e pongono il clinico nella difficile condizione di dover decidere, in assenza di dati univoci, se iniziare un trattamento anticoagulante. Come sostiene Fiona Godlee12 nell’editoriale di accompagnamento a un articolo di Wiener et al.13 sul British Medical Journal, “non tutti gli emboli devono essere trattati: dopo essere stati adeguatamente informati, i pazienti stabili, con embolia polmonare periferica, possono scegliere se venire controllati nel tempo piuttosto che anticoagulati”. La scelta della terapia anticoagulante dipenderà dalla valutazione clinica complessiva del paziente, dell’entità dell’embolia periferica, dei fattori di rischio e delle comorbilità, evitando di applicare in modo dogmatico l’assioma embolia = anticoagulanti.

La sovradiagnosi di infarto miocardico

Classificazione

L’introduzione del dosaggio della troponina ha rivoluzionato i nostri criteri diagnostici, allargando enormemente lo spettro di pazienti che etichettiamo come infartuati, includendo anche chi ha sviluppato una piccola area di necrosi. L’attuale definizioneinternazionale14, ripresa dalle linee guida europee del 201215, definisce che il termine “infarto miocardico acuto deve essere usato quando c’è la dimostrazione di una necrosi miocardica, associata a una condizione clinica indicativa di ischemia miocardica”. In accordo con le linee guida della National Academy of Clinical Biochemistry, “in presenza di una storia clinica compatibile con una sindrome coronarica acuta, la concentrazione massima di troponina che supera in almeno una rilevazione nelle prime 24h dopo l’evento clinico il 99° percentile del valore, rispetto a un gruppo di riferimento, è considerata indicativa di necrosi miocardica, corrispondente alla diagnosi di infarto miocardico” 16. Secondo le linee guida della Società Europea di Cardiologia sulle sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST “ai pazienti che si presentano con un dolore anginoso senza modificazioni elettrocardiografiche […] e che hanno valori patologici di troponina, si deve porre la diagnosi di infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST o di angina instabile”17. In tal modo, accettando che ogni necrosi miocardica (escluse eziologie infettive o traumatiche) costituisce un infarto miocardico, molti pazienti che anni fa sarebbero stati dimessi con diagnosi di dolore tipico con coronarie sane o di angina instabile, vengono etichettati come affetti da infarto con o senza sopraslivellamento del tratto ST18, facendo sorgere a qualcuno il sospetto di essere di fronte a quadri di troponinite asintomatica19. Ciò viene confermato da una revisione dei dati amministrativi di una contea del Minnesota dai quali risulta che le diagnosi di infarto, con i nuovi criteri, sono aumentate del 37%20. Infatti, quando i pazienti ricoverati con dolori suggestivi di malattia ischemica erano stati classificati secondo i precedenti criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (che non teneva conto dei valori della troponina) e con i criteri definiti dalle linee guida europee e americane si era osservato che i primi avevano una mortalità a 1 anno maggiore dei secondi.

Diagnosi differenziale

Valori elevati di troponina possono essere riscontrati in soggetti senza nota cardiopatia organica21,22, in malattie che coinvolgono altri organi23 e in tutte le malattie che provocano un danno miocardico non dipendente da una malattia coronarica (scompenso acuto, crisi ipertensiva, tachi- o bradiaritmie, miocarditi, contusione cardiaca, cardioversione elettrica, ipotiroidismo, cardiomiopatia tako-tsubo, tossicità da farmaci) o possono essere elevati per interferenza con altri fattori ematici che influenzano il risultato dei test. Peraltro, disponiamo di molti dati a conferma del fatto che i pazienti con un aumento della troponina hanno una ridotta sopravvivenza rispetto a chi non presenta movimento enzimatico, pur correggendo i valori per i principali fattori di rischio coronarico (colesterolo LDL, glicemia basale, indice di massa corporea, ipertensione, fumo); in tal modo si evidenzia l’importanza del danno miocardico, anche silente, sulla prognosi dei pazienti24- 26. Nel contempo non abbiamo evidenze scientifiche sull’efficacia di trattare pazienti con un modesto movimento della troponina sulla base di risultati ottenuti su pazienti che hanno avuto un infarto sulla base dei criteri diagnostici precedenti.

Trattamento

Quali dati abbiamo a disposizione per decidere in modo convincente che un paziente ricoverato per un lieve movimento della troponina debba essere trattato a vita con ACE-inibitori, antiaggreganti, statine ad alte dosi? Siamo sicuri che vengano garantiti loro più benefici che eventi avversi? Tutti noi, quando ci mettiamo a scrivere la lettera di dimissioni di un paziente ricoverato per un dolore atipico, con coronarie sane e un modesto movimento della troponina, ci troviamo di fronte a questo dilemma che di solito risolviamo adottando la semplice quanto assolvente equazione: danno miocardico presente = schema cronico di trattamento. Ci assolviamo, ma non siamo certi di aver fatto il bene del paziente. In questo contesto di incertezza, non ci sarà di grande aiuto la disponibilità di troponine ultrasensibili che aumenteranno la sensibilità, migliorando ulteriormente il valore prognostico negativo (se il test risulterà negativo si escluderà con altissima approssimazione un danno miocardico), ma nello stesso tempo ridurranno la specificità, aumentando il numero di soggetti che dovranno essere sottoposti a ulteriori accertamenti per confermare e definire il sospetto di danno miocardico27 e aumenterà il numero di persone trattate a vita con un cocktail di farmaci di sicura efficacia in pazienti con una necrosi estesa.

Conclusioni

I progressi delle nostre capacità diagnostiche ci sollecitano problemi terapeutici nuovi, dal momento che, in mancanza di trial clinici mirati su pazienti con patologie meno gravi di quelle diagnosticate in passato, rischiamo di provocare più danni che benefici. In molti casi accettiamo in modo acritico che le evidenze scientifiche possano essere estese anche ai pazienti individuati in una fase iniziale della loro malattia, con lesioni meno invalidanti e prognosticamene più favorevoli, senza sapere quando il rischio del trattamento (costante e noto) supera il potenziale beneficio. Talvolta una diagnosi anatomica o indotta da un test di laboratorio in modo accidentale ci induce a prescrivere un trattamento di cui non conosciamo l’efficacia. Per rassicurarci a far di più seguendo le linee guida, rischiamo concretamente di far peggio.

Riassunto

Il miglioramento della nostra capacità esplorativa e diagnostica ci permette di riconoscere malattie in stadi precoci o di individuarle in soggetti asintomatici e stabili e ci induce a trattarle sulla base di ricerche condotte su patologie più gravi e più acute. La nostra principale preoccupazione consiste nel non trattare un paziente per un difetto di diagnosi, esponendoci a rimorsi e talvolta a rivalse giudiziarie. Poco si riflette sul pericolo opposto: il sovratrattamento indotto da sovradiagnosi. Come esempio si riportano l’aumentato numero di diagnosi di embolia polmonare che non ha ridotto i decessi, ma ha aumentato il numero di emorragie da conseguente trattamento anticoagulante e l’aumentato numero di diagnosi di infarto sulla base del movimento della troponina. In entrambi i casi applichiamo strategie terapeutiche efficaci per quadri più avanzati e più instabili, con conseguenze che possono essere più drammatiche del non trattamento. Per rassicurarci a far di più, rischiano concretamente di far peggio.

Parole chiave. Sovradiagnosi, Sovratrattamento.”

 

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