a cura di: Fabio Gabrielli, Professore di Antropologia filosofica e Preside della Facoltà di Scienze umane della L.U. de S. Lugano
«La perdita della relazione umana (spontanea, reciproca, simbolica) è il fatto fondamentale delle nostre società. È su questa base che si assiste alla reiniezione sistematica di relazione umana – sotto forma di segni – nel circuito sociale e al consumo di questa relazione significata, di questo calore umano significato. L’hostess accompagnatrice, l’assistente sociale, l’ingegnere in relazioni pubbliche, la pin-up pubblicitaria, tutti questi apostoli funzionari hanno per missione secolare la gratificazione, la lubrificazione dei rapporti sociali attraverso il sorriso istituzionale. Dappertutto si vede la pubblicità imitare i modi della comunicazione privata, intima, personale. La pubblicità si sforza di parlare alla casalinga col linguaggio della casalinga di fronte, al dirigente e alla segretaria come il suo principale o il suo collega, a ciascuno di noi come un nostro amico, come il nostro Super-io, o come una voce interiore al modo della confessione. La pubblicità produce così intimità là dove non ce n’è, tra gli uomini, tra questi ultimi e i prodotti, secondo un vero processo di simulazione».
“In altri termini, si è persa la capacità di arrossire, il diritto di essere timidi!”
«I timidi, specie quelli quasi felici o che lo sono stati o che lo sono perché si sono accontentati, in sincera gratitudine pur non sapendo a chi mai esprimerla, sono più preparati a uscire dai diversi palchi dell’esistenza in quanto non vi hanno mai creduto. Non pensano che i successi conseguiti siano stati poi così importanti. Sono più preparati, perché vanno incontro al congedo almeno con un pensiero diuturno. Sono più avvezzi ad avere una vita meno grama e meno perseguitata dal demone della sconfitta personale. Non tale in ogni caso però da generare quella contentezza satolla e quella sicumera che, se riempie di sé tutta una vita, non predispone certo a intraprendere una strada schiva. Tanto meno, quando lo si deve, e si dovrebbero accettare di lasciare ad altri la scena guardando a come cambiare i propri giorni»
“La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza”
Di qui, allora, la necessità etica ed esistenziale di recuperare la dimensione schiva dell’anima, che non significa evitare, schivare la vita in «carne ed ossa», farsi da parte per vigliaccheria o per misconoscimento delle proprie abilità esistenziali, bensì saper rinominare il mondo all’insegna del pudore, della «giusta misura», del farsi spazio per l’altro.