a cura di: Andrea Carta, Ricercatore Università L.U.de.S. Lugano
Introduzione
La Psicocardiologia (o Cardiac Psychology) è un ramo recente della psicologia, che si pone come scopo quello di “studiare i processi psicologici sottostanti la prevenzione e il trattamento delle malattie cardiache” e il sostegno ai pazienti durante la loro convalescenza [Bellg, 1998]; nonché di studiare gli aspetti psicosociali inerenti l’eziologia, la degenza, la riabilitazione e i processi di coping emotivo di tutte le malattie cardiache [Jordan, Bardè; Zeither, 2003].
“…quel bacio è ancora lì…”
“Il proliferare della ricerca in psicocardiologia si ebbe però con la famosissima descrizione operata da Friedman e Rosenman (1959) del pattern comportamentale di Tipo A.”
Gli studi in psicocardiologia
“Ma in che modo la psicologia può essere d’aiuto in un contesto così prettamente medico?”
Gli studi attuali: la personalità di tipo D
La tassonomia si basa su due tratti ampi e stabili, cioè quelli dell’affettività negativa e l’inibizione sociale [Denollet, 1998]. In particolar modo l’affettività negativa denota la tendenza a esperire un distress negativo rispetto al tempo (come per il TABP) e alle situazioni; mentre l’inibizione sociale si riferisce alla consuetudine di “tenersi tutto dentro”, cioè di non esprimere questo distress nelle interazioni sociali. Alti punteggi in entrambi i tratti danno origine alla personalità di tipo D. Secondo Denollet (2000) Lespérance, Frasure-Smith (2012) i soggetti affetti da questo complesso tendono ad essere impauriti, ad avere un visione pessimista della vita, a sentirsi spesso depressi, appaiono irritati e meno coinvolti nel provare stati positivi d’umore. Nello stesso tempo, per effetto della desiderabilità sociale, non esprimono i loro stati d’animo per paura di essere giudicati negativamente o non accettati socialmente.
Gli studi si sono concentrati, dal 2012 al 2000, sulla correlazione tra fattori di rischio psicologici (stress, depressione, esaurimento), collegamento con la personalità di tipo D e quindi incidenza di questi fattori sul cuore.
Il primo studio in assoluto venne svolto nel 1995 [Denollet, Sys, Brutsaert] con 105 soggetti. Il 73% delle morti nel campione, occorse alle persone con alti punteggi di Type D. Questo portò ad una serie di riflessioni: la personalità D era collegata ad un rischio di morte 6 volte maggiore rispetto al gruppo di controllo (non-Type D); in più essa era collegata, attraverso fattori di rischio biologici (per esempio è i soggetti TD tollerano male l’esercizio fisico) all’insorgere di infarti del miocardio.
I risultati preliminari furono confermati un anno più tardi in uno studio su 303 pazienti con CHD. Lo studio era una continuazione di quello del 1995 e aggiunse solo maggiore lunghezza del follow-up ed un campione più rappresentativo. La mortalità, come si può vedere dalla fig. 1, era più alta per i pazienti con Type D (27% rispetto al 7%) e l’impatto dei sintomi di fatica e esaurimento sembrarono essere prevalenti in pazienti con questo particolare complesso di personalità
Si è ormai radicata la convinzione che “le CHD, includendo i disordini circolatori, sono le classiche malattie psicosomatiche del nostro secolo” [Jordan, Bardè; Zeither, 2003]. Da questa citazione si evince l’importanza di proseguire con gli studi nel settore della psicologia cardiaca, anche perché, oggi, al contrario dei secoli passati, non possiamo esimerci, per una comprensione completa di un fenomeno, da una visione che comprenda gli aspetti psicologici, biologici e sociali. In particolar modo è chiaro che l’aspetto di prevenzione psicologica giocherà un ruolo fondamentale nella battaglia contro le malattie cardiache.
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