Ancora molti anni fa un grande clinico ripeteva ai giovani medici che due erano (e sono) le condizioni essenziali di una terapia anticoagulante: “L’indicazione clinica e la corretta conduzione”.Oggi il Porf. Vittorio Pengo, Professore Associato del Dipartimento di Scienze Cardiologiche Toraciche e Vascolari e Responsabile del Centro Trombosi dell’Università di Padova, il quale vanta una non comune formazione clinica, ci ricorda in premessa che “curare bene è conoscere bene”: quindi la valutazione clinica del singolo malato, nelle diverse situazioni cliniche, è il presupposto per una appropriata e personalizzata terapia anticoagulante. Basti pensare all’importanza della funzione renale ed epatica alle difficoltà e ai rischi della triplice associazione di antiaggreganti e anticoagulanti, alle scelte differenziate nella patologia venosa (embolia polmonare) rispetto alla patologi arteriosa (malattia coronarica).
In questo diffuso e impervio campo della terapia medica abbiamo ritenuto illuminante ricorrere, grazie al Prof. Vittorio Pengo, alla medicina ippocratica per mantenere in un contesto logico quanto ci offrono la farmacologia, la tecnologia e i markers bioumorali, fra i quali lascia sperare la genetica.
“I “no” di Vittorio Pengo per una corretta terapia.”
Intervista al Prof. Vittorio Pengo
A cura di Giuseppe Riggio ed Eros Barantani
“Curare bene é conoscere bene”. Quando si testa l’efficacia e la sicurezza di nuovi anticoagulanti esiste un percorso prestabilito che prevede in successione il loro utilizzo nelle seguenti patologie: si parte dalla prevenzione del tromboembolismo venoso in pazienti con protesi dell’anca o ginocchio (alto rischio), poi si passa alla terapia del tromboembolismo venoso in generale e quindi alla prevenzione primaria e secondaria della fibrillazione atriale; i nuovi farmaci anticoagulanti non sono tutti uguali, comunque tutti hanno dimostrato la loro efficacia (non inferiorità) rispetto al farmaco di riferimento (warfarina). Per la prescrizione di questi nuovi farmaci è necessario fare riferimento ad una checklist, cioè a tutte le domande che dobbiamo fare ai pazienti e tutti gli esami da prescrivere prima di iniziare il trattamento; il loro corretto utilizzo dipende dalle conoscenze del prescrittore. Conoscere bene i farmaci che si stanno usando è un requisito essenziale. Nei primi tempi in cui sono stati utilizzati sono stati descritti effetti collaterali legati a prescrizioni non chiare o scorrette. Pensiamo ad esempio alle persone che hanno problemi di funzione renale o epatica, a quelle di basso peso corporeo ai quali è prescritta una dose eccessiva; per la farmacogenetica non abbiamo ancora dati in mano, per i nuovi farmaci. Sappiamo che la loro concentrazione plasmatica da alcuni fattori che possono incidere sull’assorbimento come la proteina g, o sul loro metabolismo come il citocromo P450 epatico e le sue variazioni ma non vi sono ancora studi ad hoc; bisogna comunque sottolineare che al momento, dato l’elevato numero di pazienti che usano i nuovi anticoagulanti nel mondo, non abbiamo dati negativi; uno degli elementi di preoccupazione è l’aderenza e la persistenza al trattamento; un paziente trattato con warfarin fa mediamente il controllo dello stato di anticoagulazione ogni tre/quattro settimane e può essere in questo modo richiamato ad assumere il farmaco in maniera corretta; con i nuovi farmaci il controllo di laboratorio non è previsto ed è quindi necessaria l’educazione del paziente per una corretta assunzione del farmaco.
La triplice associazione era un criterio di esclusione negli studi di registrazione e quei pochi pazienti che sono entrati sono stati valutati, (due farmaci antiaggreganti e un farmaco anticoagulante) hanno un 50% circa in più di rischio emorragico. E’ importante essere molto cauti; se il paziente è portatore di una protesi meccanica e deve fare anticoagulanti a vita ed è sottoposto a posizionamento di stent coronarico, la doppia antiaggregazione è necessaria; i nuovi anticoagulanti comunque non sono indicati nelle protesi meccaniche dato che uno studio è stato interrotto per mancanza di efficacia; se c’è la necessità di utilizzare la triplice terapia antitrombotica è meglio utilizzare uno stent non medicato invece che medicato in modo che l’antiaggregazione sia più breve, è meglio utilizzare la procedura per via radiale più che per via femorale per evitare sanguinamenti importanti. Inoltre se la triplice terapia viene utilizzata per la fibrillazione atriale non ad alto rischio è meglio usare una dose bassa del farmaco anticoagulante che il paziente sta assumendo e usare anti aggreganti che non siano molto emorragici come ad esempio il clopidogrel. Questo è ancora un terreno molto insidioso ed è difficile prendere decisioni; bisogna essere cauti, valutare i rischi, diminuire la terapia anticoagulante o addirittura toglierla; tre farmaci insieme comportano rischio elevato molto più che la doppia antiaggregazione da sola: con la warfarina ma anche con nuovi anticoagulanti le emorragie sono più frequenti. Valutare le caratteristiche del paziente, il rischio emorragico è variabile da paziente a paziente, parlare con i pazienti di ciò non è facile, le linee guida tenute in conto non bastano, occorre personalizzare la terapia.
Capitolo molto discusso: il TIA è un episodio improvviso focale ischemico cerebrale con perdita di forza o sensibilità di un arto o della vista, TIA é solo quello che ha un riscontro alla TAC o RMN cerebrale, vi sono forme di attacchi ischemici transitori che non sono legati a fatti ischemici cerebrali.
Nell’anziano l’atrofia cerebrale o la crisi ipertensiva, situazioni in cui non è detto che l’attacco transitorio sia dovuto ad attacco ischemico cerebrale.
I medici alla fine fanno terapia antiaggregante ma se siamo sicuri che vi è torpore solo momentaneo, perdita di sensibilità oppure emicrania con relativo momentaneo ipoafflusso cerebrale (emicrania comitata); in questi casi va curata la situazione clinica che ha determinato l’alterazione più che dare un farmaco antiaggregante; se invece un paziente ha un attacco ischemico transitorio e si scopre una fibrillazione atriale misconosciuta, si farebbe comunque la prevenzione con anticoagulanti; vi sono forme occlusive cerebrali che non sono legate a fenomeni occlusivi trombotici, a volte sono determinate da una parete ipertrofica come nel caso di ipertensione e diabete. La parete del vaso non ha occlusione trombotica ma l’ipoafflusso è determinato dall’ispessimento della parete del vaso; in tal caso vanno curati bene, ipertensione e diabete; si può dare anche l’aspirina ma la patogenesi è legata a meccanismi occlusivi cerebrali non trombotici.
E’ assolutamente necessario differenziare le trombosi venose come l’embolia polmonare da quelle arteriose (coronariche). Melle vene si formano trombi ricchi di fibrina poveri di piastrine, nella malattia coronarica vi sono coaguli ricchi di piastrine; nell’embolia polmonare si usa un dosaggio pieno di farmaco anticoagulante mentre nelle malattie coronariche si usano anche antiaggreganti e si dà un dosaggio molto più basso di anticoagulante: per esempio il rivaroxaban si usa al dosaggio di 20 mg al giorno (15+15 mg nella fase acuta) mentre nelle sindromi coronariche acute si usano 2.5 mg al dì; quindi nella malattia coronarica acuta un certo beneficio possono portarlo ma a basso dosaggio.
Capitolo non ancora completamente chiaro per gli esperti. La demenza multi infartuale più frequente nel fibrillante che nel non fibrillante ma non è così sicuro che sia proprio così; vi sono alcuni studi nei quali è stata trovata maggiormente presente nei soggetti più giovani (nei quali non dovrebbe verificarsi) che in quelli più anziani. E’ suggestivo che possa succedere se nell’auricola si formano microtrombi che creano poi problemi a livello cerebrale ma non vi è certezza. La chiusura o legatura dell’ auricola va tenuta presente specie in alcune situazioni; esistono varie tecniche di occlusioni dell’auricola sin, dove in più del 90% dei casi si formano trombi che poi embolizzano al cervello. Ciò è dovuto al fatto che questa estroflessione del tetto dell’atrio contiene delle microcaverne dove se il flusso del sangue può ristagnare in presenza di fibrillazione atriale e quindi dar luogo alla formazione di coaguli rossi che possono essere prevenuti mediante l’anticoagulante; esiste anche la chiusura chirurgica quando si apre il cuore oppure la chiusura transtoracica passando attraverso il torace in toracoscopia mettendo una specie di lazo sulla punta del catetere, individuando l’auricola e quindi strozzarla; questa tecnica minichirurgica potrebbe essere utile in alcuni pazienti ma se c’è grande rischio di stroke (magari già verificatosi in passato) e di rischio emorragico.
No, nelle protesi valvolari meccaniche, no nella fibrillazione atriale valvolare con stenosi mitralica, non se ne parla nemmeno in queste due situazioni. Poi un no nell’insufficienza renale al quarto o quinto stadio, questi farmaci vengono eliminati per via renale e quindi molta attenzione; molta cautela va posta nella insufficienza renale moderata (30-50 ml/min clearance creatinina) utilizzando un dosaggio ridotto. No nel paziente che non assicura una buona compliance. Molti dubbi se il paziente ha disturbi cognitivi e non è seguito da altri; questi farmaci hanno emivita molto breve e quindi il paziente rischia di essere non protetto in caso di non assunzione anche per breve tempo; i vecchi anticoaugulanti hanno ancora spazio in pazienti con insufficienza renale cronica grave: la warfarina è indicata poiché non viene escreta attraverso il rene ma solo attraverso il metabolismo epatico, nei pazienti con scarsa o nulla aderenza usare warfarina, e così nella stenosi mitralica e nelle valvole meccaniche; situazioni non coperte attualmente da questi nuovi farmaci.